Pare tutto così semplice a capirsi che mi ostino a fare il vago in un vano tentativo di ingannare la mia mente. Essa, che appare così silenziosa, produce frastuono. Non mi concede l’esistenza serena che sembra, piuttosto, manifestarsi ormai un ideale utopico impacchettato in qualche angolo remoto della ragione.

Accade che scorgo nitida la verità del subbuglio in me, ma non lo ammetto nel mio profondo perché troppo grande sarebbe la vergogna e troppo schiacciante il timore.

Perché colleziono meschini tentativi? Perché il dolore diviene talvolta insopportabile?

Esso mi consuma. O forse a consumarmi non è il dolore, è l’avvicendarsi tra esso e il sollievo. Nella repentina mutevolezza che vivo, le domande si diffondono, accrescono la loro perfidia, mi calpestano.

Divago freneticamente con il corpo e con lo sguardo. Cerco un appiglio. Sembra quasi che io non sappia dove esso risieda. E invece lo so, perché con destrezza, da tempo, giungo sempre al medesimo luogo.

Nella letteratura trovo riparo. Essa mi suggerisce, con voce soave e a volte tagliente, i miei sentimenti. Mi affretto a scrivere con la sola intenzione di comprendere i pensieri. Il dolore e la sofferenza mi offrono la prospettiva di immergermi a fondo nella mia interiorità.

Connesso quotidianamente con l’indisponibile, il mistero della morte o dell’amore per esempio, localizzo la genesi del dolore, a sua volta creatore dell’energia necessaria a progredire e a godere dell’esistenza.

Nel dualismo tra dolore e piacere, emerge la differenza di tempo tra i due: illimitato e limitato. L’uno la forza di gravità, l’altro l’estemporaneità.

Luigi

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