Liberati dalla fame di successo. Togliti l’etichetta dell’Io.

L’inverno è alle porte, il freddo che ti entra nelle ossa diventa sempre più ruggente. E allora che si fa?

Si va in montagna. 

La prima neve copre le cime dei monti delle Alpi. Siamo tre amici, una casa accogliente e quel sano e pacato entusiasmo di saperci prendere il momento.

Parliamo, riflettiamo, parliamo.

L’ambiente è dipinto da colori caldi. Il giallo delle lampadine sparse qua e là, l’intenso arancione delle fiamme nel camino, e i medesimi colori che riflettono sulle pareti in legno.

In sottofondo un filo musicale di jazz ad accompagnare il ritmo lento.

Parliamo di successo, dell’Io e indaghiamo su come è possibile raggiungere l’equilibrio interiore.

IN VETRINA

Ho riflettuto, con uno spiccato spirito critico, sulla capacità di eliminare (prima attenuare) la fame di successo a cui la società moderna ci ha allevato. 

In quella casetta di montagna, ne abbiamo parlato a lungo e ci siamo fatti aiutare anche da Byung-chul Han, filosofo sudcoreano. Sia chiaro, lui non era presente, abbiamo solamente letto alcuni passaggi del suo libro “La scomparsa dei riti”.

Ho pensato a quanto sia necessario compiere un passo antecedente all’eliminazione della fame di successo. Prendere consapevolezza del proprio Io e trovare la strada che ci consente di uscirne. Vivere una vita fuori da esso.

Non è un processo semplice e lineare. Né esiste un copione da seguire per riuscirci. 

Viviamo in un sistema, costruito dall’uomo, che si è trasformato in una trappola invisibile agli occhi dei più. È come se, ogni cosa che si faccia sia frutto di un’operazione di vendita della propria persona.

Ci si veste per apparire, non per il semplice atto di coprirsi dal freddo. Si scatta una fotografia adatta alla condivisione sui social network e all’affermazione della propria persona, non la si fa per il gusto di osservare gli elementi e ricordare il momento immortalato. Si ricorre al trucco o alla chirurgia estetica per conformarsi a degli standard suggeriti (forse sarebbe meglio dire imposti), non per un valore spirituale o un sentimento che nasce dal proprio sé. Ci si interessa alle altre persone mettendo in atto una recita con il fine ultimo di avere il loro appoggio nel momento del bisogno o per qualsivoglia beneficio personale, non lo si fa per comprendere il loro stato d’animo e la loro interiorità.

È come se osservassi nel quotidiano, una corsa frenetica dell’umanità. Una corsa per impadronirsi del miglior spazio in una vetrina da cui vendersi. E quando si raggiunge lo scopo di essere acquistati da qualcun altro, ecco che sorge immediata la rinnovata necessità di individuare una nuova vetrina in cui esporsi.

COSA COMUNICHIAMO

Siamo. Pensiamo. Comunichiamo.

Infinito. Finito espandibile. Finito limitato.

L’Essere è immensità. Non possiamo circoscriverlo in uno spazio finito. Si espande in infinite direzioni e siamo complessi per questo motivo.

Lo strumento del pensiero ci consente di esplorare l’Essere. È chiaro, non possiamo esplorarlo nella sua infinitezza, dobbiamo impegnarci nello scavare a fondo di piccole porzioni. 

La comunicazione ci permette di attrarre gli altri e dar vita a una comunità. La comunità, a sua volta, ci consente di far rimbalzare i pensieri sotto forma di informazioni, nuove o non, generando ispirazioni rinnovate ed evolute.

Il linguaggio è l’ultima e più grande forma di limite del pensiero (forse).

SCHIACCIATI O MOTIVATI

È sempre più diffusa la sensazione spiacevole del non sapere cosa fare della propria vita (probabilmente è sempre esistita in tutti gli esseri umani ma occultata). Ma ciò accade perché viviamo nell’illusione che quello che ci circonda sia la necessità dell’uomo.

Falso. Dobbiamo liberarcene (o quantomeno allontanarci il più possibile).

Tale struttura ci rende prodotti. Siamo riusciti a trasformare un bisogno evolutivo (quello della produzione del necessario per la sopravvivenza) in un circuito chiuso capace di controllare non solo la produzione ma anche il produttore. Quest’ultimo concorre, attraverso il pretesto della produzione e del sostentamento individuale, al raggiungimento di un egoistico ed egocentrico status sociale che lo gratifica (ma temporaneamente).

Comprendo che il sacrificio da compiere è enorme. Può apparire come un ostacolo contro cui evitare di battagliare.

E comprendo anche le difficoltà che abbiamo, spesso, nel definire e stabilire il punto di equilibrio nella nostra vita. Viviamo nella convinzione che esso sia, esattamente, un punto.

Ma facciamo parte di un Tutto in continua evoluzione. Il cosmo evolve, il nostro pianeta evolve, ogni singolo elemento evolve.

E dunque, come possiamo pensare che noi, irrisorio (ma rilevante) elemento di questo Tutto, possiamo raggiungere un istante in cui si stabilisca un equilibrio e che esso resti tale nel tempo?

Si tratta, piuttosto, di un processo che ha durata quanto i giorni della nostra vita (e forse oltre). Questa affermazione può schiacciarci o motivarci.

DISAGIO

Chi siamo noi per dire a noi stessi e agli altri che il giusto sta nell’ambizione personale, nel possesso di oggetti o spazi, nel dominio dell’altro o nel seguire la strada tracciata da qualche essere umano in passato?

Mi rendo conto di provare, spesso ma non più tanto spesso come un tempo, una certa sensazione di sollievo nel sistema costruito dall’uomo. E ci sono momenti in cui provo disagio immerso nella natura da solo con i miei pensieri.

Come sentirsi, per un attimo, in un rifugio. Ma presto torna forte la chiarezza nella mente: questo rifugio riduce temporaneamente la sofferenza ma non scalfisce la causa.

Devo ricordarmi di coltivare un processo d’indagine interiore costante nel tempo per garantire il mio equilibrio

Mi sono accorto che il disagio scompare quando mi ritrovo impegnato nello scrivere, nel disegnare, nel fotografare o nel perseguire qualcosa di creativo.

Come se il processo creativo fosse ciò di cui ho bisogno per coltivare il mio equilibrio. Quell’equilibrio tra il violento chiacchiericcio mentale dei miei pensieri e la loro rappresentazione fisica attraverso l’espressione artistica che consente al mio Essere di sperimentare la serenità.

Non ho bisogno di molto.

Alzo lo sguardo. Un mio amico sta accendendo il fuoco nel camino, l’altro sta leggendo rilassato sul divano. Mi metto ai fornelli a cucinare. 

Abbiamo del cibo, abbiamo delle menti, abbiamo uno spirito e abbiamo dei contenuti di cui discutere. 

Siamo impegnati in piccoli riti. Riti che, per quanto semplici, hanno la forza di appagare e nutrire l’Essere.

Luigi.

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