Arrivai presto al mattino. Erano le 6.57 a Paro, Bhutan.

Kumar mi aspettava appena fuori dall’ingresso dell’aeroporto. Lo vidi subito, non erano presenti molte persone. Aveva in mano un foglio di carta con sopra scritto il mio nome in nero. 

Sorrise non appena mi vide uscire dalla porta. Mi aveva riconosciuto, aveva già visto qualche mia foto. 

Alzai lo sguardo in alto e il cielo era di color azzurro acceso. Non sembrava esserci neanche una singola particella di inquinamento. E lo si percepiva anche respirando. Non ricordo di aver respirato mai un’aria così pura e piacevole come quel giorno appena sbarcato in uno dei paesi più felici del mondo

E ci credo che lo fosse, se questo era solo l’inizio, non osavo immaginare cosa mi avrebbe regalato il resto.

Kumar fece strada verso il parcheggio dove, ad attenderci, c’era Pal (l’autista). In Bhutan controllano in questo modo l’afflusso di persone per tutelare il paese. Puoi visitarlo solo accompagnato per tutto il tuo soggiorno da una guida. Loro due sarebbero stati i miei punti di riferimento per l’intero viaggio. 

Ci spostammo in auto fino a Thimphu, la capitale. Rimasi sorpreso nel trovarmi in quella che, in occidente, viene considerata come una piccola città. Kumar mi disse che gli abitanti della capitale erano poco più di centomila.

Ma ancor più sorprendente era la totale assenza di semafori. Solo alcuni incroci erano gestiti da agenti che, all’interno di una sorta di cabina in pieno stile bhutanese con decorazioni e creatività tipiche della loro cultura, muovevano le braccia direzionando auto e motorini.

Arrivammo in hotel. Il tempo di sistemarmi e tornai da Kumar e Pal. Stava per cambiare per sempre il mio profondo vivere quotidiano

I RIFUGI MENTALI CHE FANNO MALE

Il primo giorno era prevista una visita tra le più importanti in Bhutan. Avrei visitato il monastero di Taktsang, una struttura suggestiva incastonata tra le rocce dei monti a nord di Paro. 

Ma avrei fatto di più. Kumar aveva organizzato un incontro con uno dei monaci del monastero.

Fu molto dura arrivare fin lassù. Un lungo trekking in salita, a tratti estremamente ripida, non la rende una metà per tutti. Ma chi può, deve raggiungerla. Si tratta di un’esperienza unica.

Venni accolto con il tradizionale sorriso splendente dei bhutanesi e ci sedemmo tutti e tre, io, Kumar e il monaco, assumendo la posizione del loto. Diciamo che io ci provai e con non poca fatica.

Iniziammo la conversazione che sarebbe durata una mezz’ora. Kumar prese parola: “come molti occidentali che visitano il nostro paese, questo ragazzo avrebbe piacere di discutere della felicità che, dalle sue parti, sembra essere sempre più un obiettivo inafferrabile.”

Il monaco sorrise e si rivolse a me: “dimmi ragazzo, hai mai vissuto un lutto di qualche tua persona cara?”

Risposi negativamente.

E mi sentivo leggermente a disagio nel trattare questo tema con una persona conosciuta da pochissimi minuti e con un’altra da poche ore.

“E come reagiresti se dovesse accadere?”

“Credo che soffrirei molto, faticherei ad andare avanti ma cercherei cose da fare per tenermi impegnato e riprendermi un po’ alla volta.”

“Questo è il primo grande problema che devi affrontare. Vedi, in occidente è diffusa l’usanza di temere la morte e di ricercare costantemente situazioni in grado di distogliere il pensiero da essa.”

Il monaco stava descrivendo esattamente quello che accadeva nella mia mente e nella mente di molti occidentali. 

Il progresso nella medicina ha consentito alla mente umana di allontanarsi ancor di più dal pensiero della morte con la credenza che, un giorno, la scienza ci avrebbe tolto dall’impiccio di morire. E questo processo mentale non fa altro che alimentare maggior dolore e sofferenza.”

Quelle parole mi stavano prendendo a pugni. Erano la sottile verità che sentivo di conoscere già ma di non aver mai accettato. 

Michael Easter nel suo brillante libro “Troppo comodi”, riporta dei dati in piena sintonia con le parole del monaco. 

Atul Gawande, professore di chirurgia della Harvard Medical School, parla di una percentuale del 25% della spesa totale gestita da Medicare dedicata al 5% dei pazienti con previsione di morte nell’arco dell’anno successivo. 

Appunto, ritardare la morte che genera ulteriore dolore e sofferenza.

Gli scienziati dell’University of Kentucky, invece, hanno riscontrato che, quando le persone pensano quotidianamente alla morte e ne diventano consapevoli, il sistema autonomo produce pensieri correlati alla felicità

“Caro ragazzo” proseguì il monaco, “pensa che qui in Bhutan il 60% della popolazione non saprebbe neanche dirti il giorno in cui è nata. L’età è come un concetto astratto proprio perché siamo abituati a non contare i giorni che ci separano dalla morte o i giorni che abbiamo vissuto.”

Quella conversazione mi stava strizzando il cervello. Sentivo che in quel paese la gente era riuscita ad avvicinarsi quanto più al vero significato di felicità, sempre che ne esista uno.

In Bhutan pensiamo alla morte in media da una a tre volte al giorno. Cosa pensi che scateni questo comportamento nelle persone?”

Non sapevo cosa rispondere. Avrei voluto dire angoscia ma il monaco mi smentì prima ancora di potergli dare la mia risposta.

“Accade che sappiamo affrontare la morte. Ci liberiamo di quella forma di oppressione che tu conosci molto bene e che rappresenta il motivo per cui la gran parte degli occidentali tenta di fuggire al tema, come se fosse un cosa realmente possibile.”

Ero decisamente sconvolto. Mi accorsi di non essere mai riuscito a parlare con altri in maniera aperta e trasparente del tema della morte in passato, ancor meno accettarla.

Ma non era finita lì.

COME IL BHUTAN HA RAGGIUNTO LA FELICITÀ 

Nel 1972, il re del Bhutan Jigme Singye Wangchuck, capì che, a differenza di tutti gli altri Stati che rincorrevano una ricchezza esclusivamente economica, il suo piccolo paese avrebbe dovuto prendere una direzione differente.

Si accorse che la rincorsa di un elevato prodotto interno lordo generava un’ampia forbice di qualità di vita tra le classi medie e benestanti prosciugate dall’eccessivo lavoro e la classe dei poveri che viveva la miseria.

Giunse alla conclusione che, da quel momento in poi in Bhutan, si sarebbero concentrati sulla felicità nazionale lorda. Di fatto, il mezzo economico non era altro che uno strumento per raggiungere l’obiettivo principale per tutti: la felicità.

Si concentrò nel migliorare alcune caratteristiche del paese con il fine ultimo di raggiungere questo obiettivo. 

Tra le voci più importanti emergevano il benessere psicologico, la salute fisica, il lavoro, la formazione della comunità e la resilienza ecologica

Il Bhutan oggi è uno dei pochi paesi al mondo considerati a emissioni zero. Tutto ciò è dovuto alle politiche di tutela del proprio territorio come la legge che impone che almeno il 60% del territorio rimanga boschivo o come il turismo sostenibile che, come raccontavo in precedenza, ti obbliga a essere seguito sempre da una guida locale.

L’approccio ecologico non ha affatto danneggiato l’economia, anzi, al contrario il paese è riuscito a innalzare il proprio PIL e ridurre la povertà dal 36% al 12% dagli anni Ottanta a oggi.

A SCUOLA DI FELICITÀ

Due giorni più tardi avevo un altro incontro con un secondo monaco. Kumar mi aveva detto che con lui avrei potuto completare il discorso avviato con il primo monaco nel monastero di Taktsang.

Questa volta ci trovavamo dalla parte opposta rispetto alla capitale. Il monastero Talo era sulle colline di Punakha. Un luogo incontaminato, un po’ come la gran parte del Bhutan. Si potevano ascoltare soltanto i suoni della natura.

Pal parcheggiò l’auto appena fuori e io, insieme a Kumar, andammo verso l’ingresso. Il monaco era proprio davanti alla porta che ci aspettava. Sapeva del nostro arrivo e si fece trovare fuori dall’edificio. 

Mi presentai e, come sempre, venni accolto da un sorriso sincero

Pochi minuti più tardi si era ricostruita la stessa situazione di Paro. Io, Kumar e un monaco seduti su comodi cuscini in posizione del loto. Io sempre con le mie solite difficoltà di chi non stava mai seduto in quel modo. Ma la conversazione iniziò e non mi accorsi dei dolori alle gambe.

“Caro turista, sei qui alla ricerca della formula segreta della felicità?”

Avevo capito che non esisteva alcuna formula segreta ma risposi che mi avrebbe fatto piacere sapere di più sulle motivazioni che rendono il popolo bhutanese molto più felice dei popoli da cui provengo io. 

“È una questione di obiettivi e ambizioni. Voi occidentali siete abituati a ragionare per elenco di obiettivi. La vostra vita è scandita dal trovare un buon lavoro, una bella casa, una bella auto, una moglie o un marito belli e intelligenti. E poi questo ciclo riprende. Avete una casa e ne volete una migliore, avete una bella auto e ne volete una migliore, avete raggiunto un buon lavoro e ne volete uno migliore.”

Le sue parole potevano sembrare un attacco frontale a me e alla cultura da cui provengo ma il suo atteggiamento e il suo tono di voce giungevano alle mie orecchie come una musica cordiale e rilassante. 

La ricerca della perfezione vi rende schiavi. E voi state al gioco perché inconsapevoli che essa è irraggiungibile, restando imprigionati nel desiderio personale.”

Era la verità. Stava crescendo in me la curiosità di comprendere dove volesse arrivare.

“Se capite questo passaggio diventerete uomini e donne consapevoli. Se non sarete in grado di raggiungere una grande ricchezza economica, andrà comunque tutto bene. Se vostra moglie non è perfetta, andrà comunque tutto bene. La consapevolezza è la risposta alla domanda: come raggiungere la felicità?

Ma la consapevolezza di cosa, mi domandavo. Qual era l’elemento mancante?

“La morte.” 

Disse il monaco come se mi avesse letto nel pensiero. 

La morte deve far parte dei nostri pensieri, ogni giorno. In Bhutan siamo abituati a conviverci quotidianamente. Sappiamo che essa è parte di noi e potrebbe arrivare in qualsiasi istante. Abbiamo sviluppato una capacità di prestare attenzione a ciò che è presente, senza espressione di giudizio.”

Non capivo. 

Non pensare alla morte quotidianamente significa essere ignoranti. Non considerandola come un evento in grado di accadere in qualsiasi istante, commettiamo l’errore di non dedicarci al meglio alla nostra vita. Se, invece, ho la consapevolezza che essa può giungere anche in questo momento, saprò focalizzarmi sul mio presente e compiere azioni in grado di modificare positivamente il mio percorso.

Le parole del monaco, inizialmente non chiare nel loro complesso, stavano diventando luminose. Stavo comprendendo il filo del suo discorso. Lo seguivo affascinato. 

“Pensare alla morte permette alla gratitudine di emergere in ognuno di noi. E la gratitudine riduce notevolmente l’ansia e lo sviluppo di molte malattie, come alcune patologie cardiovascolari.”

Speravo che quel momento di estrema saggezza, così lontana dalla mia vita quotidiana occidentale, non finisse mai. Non avevo il tempo né la voglia di interrompere il monaco con qualche domanda. Il suo flusso logico filava senza che nascessero in me ulteriori questioni.

“Ti voglio dire un’ultima cosa ragazzo. Sai qual è il significato della parola mitakpa?”

Risposi negativamente, riprendendo parola dopo oltre venti minuti seduto immobile e in silenzio ad ascoltarlo. 

“La parola mitakpa significa impermanenza. Ovvero, nulla permane. Questo significa che nulla deve essere trattenuto altrimenti, in cambio, riceveremo sofferenza.”

Con queste parole terminò il nostro tempo a disposizione. Non sapevo come ringraziare il monaco. Mi accorsi, però, di avergli regalato il mio più sincero sorriso

Mi sorpresi. Sorridere sinceramente era stata la cosa che per prima avevo notato del popolo bhutanese. E a distanza di pochi giorni dal mio arrivo, mi ero accorto di averlo appena fatto anch’io. Era come se avessi accumulato dell’energia diversa espressa in gratitudine esattamente come loro fanno ogni giorno da tanti anni.

Forse si trattava di quella felicità che andavo cercando?

Luigi.

2 risposte

  1. Tra tutti i tuoi articoli questo è il più bello e ispirativo. Fa venire voglia di prendere e partire per il Bhutan. Però in passato e proprio in Europa l’idea della morte era molto più presente. Penso ad esempio ai quadri sul memento mori. Forse l’abbiamo un po’ persa per strada. Tuttavia chi ha subito un lutto imprevisto ci pensa molto spesso.

    1. Ti ringrazio Jacopo.
      Penso anch’io che in Europa il pensiero della morte fosse più presente e consapevole in passato. Hai citato il memento mori che rappresentava qualcosa di molto simile all’idea oggi presente in numerosi paesi asiatici. Credo che l’evoluzione tecnologica e il consumismo ci hanno consegnato forti distrazioni che non lasciano quasi più spazio a pensieri profondi sul ciclo della vita. O quantomeno richiedono impegno e non tutti hanno la forza di dedicarcelo.

      Il lutto, invece, è un evento che spesso ci coglie impreparati e avere una consapevolezza della morte può solo fare bene.

      Grazie di cuore del tuo sempre puntuale contributo, fonte d’ispirazione e crescita.
      A prestissimo!

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