1976.

Da quell’anno in poi la storia cambiò. 

Sembrava tutto così meraviglioso. Nuove scoperte e la tecnologia che avanzava.

Eppure, come due poli dello stesso tipo in una batteria, le persone cominciarono ad allontanarsi sempre più l’una dall’altra. 

E poi la grande esplosione dei servizi digitali, l’invenzione delle app e l’aggressivo impossessarsi del web da parte dei social network.

LA SOLITUDINE UCCIDE

Era tutto così strano, irreale. 

Mi trovavo sul terrazzo di casa. Fortuna io che ne avevo uno. Tante altre persone si ritrovarono intrappolate nelle quattro mura del proprio appartamento. 

Eravamo entrati in una pandemia che mai ci saremmo aspettati di vivere nell’era moderna. Eppure eccoci lì, incapaci di reagire con prontezza e con il terrore di non farcela.

Stavamo vivendo l’esperienza dell’isolamento, quello forzato per la sicurezza sanitaria.

Tuttavia non mi sentivo immerso in una situazione totalmente nuova. Percepivo alcune sfumature di quella condizione come già conosciute ma non riuscivo a collegarle a circostanze passate.

Mi chiedevo quale fosse la parola chiave in quel momento. La più scontata poteva essere la paura ma ne trovai una seconda ancor più azzeccata: la solitudine

E partendo da questa parola feci un ragionamento a ritroso. 

Già da parecchio tempo eravamo all’interno di un vortice che ci stava rendendo sempre più soli. Con l’illusione di essere circondati da tanti amici e persone a cui vogliamo bene ma nella realtà isolati in una bolla.

Dal 1976 in poi, gli studi hanno evidenziato un forte incremento della solitudine nel giovane adulto. 

Più la società subiva un’apparente crescita globale (sviluppo delle tecnologie, incremento dei comfort, servizi web ecc.), più le persone si sentivano soffocare in una sempre più opprimente solitudine.

Sorseggiavo un caffè, lentamente come piace a me, accarezzato da una leggera brezza e un silenzio assordante. Dal mio terrazzo scorgevo in lontananza le montagne imponenti del nord Italia. Per strada, nessuno. 

I social network ci avevano già addestrato alla solitudine. Quest’ultima era presente in noi ancor prima dell’arrivo della pandemia. Questo era ciò che pensavo.

Facebook ci raccontava di essere lo strumento per connetterci alle persone che conoscevamo, ai nostri amici. Ma era vero?

Tinder si proponeva come il luogo in grado di far nascere nuove relazioni. Ma era vero?

Queste piattaforme hanno fatto ben altro. Hanno alimentato la nostra solitudine e scatenato quel pacchetto di emozioni tra cui rientrano la tristezza o l’ansia. Siamo finiti in un vortice di perenne senso di insoddisfazione.

Immagine di Scott Gallowey nell’articolo AiLONE

E con la solitudine non si scherza. I dati confermano che è capace di incrementare del 29% i rischi di sviluppare malattie cardiache e del 32% i rischi di ictus.

Sembra molto chiaro: la solitudine uccide.

LA VITA RIVOLTA VERSO L’ESTERNO

Proseguii con il mio ragionamento e decisi di andare a fondo. Esistevano numerosi studi e approfondimenti online per comprendere realmente le cause di una crescita così dirompente della solitudine tra la gente. 

La pandemia stava giocando un ruolo fondamentale, è vero, ma non era la causa principale.

Spesso oggi, l’unico scopo di un’azione è la realizzazione di un contenuto da postare sui social network. Ogni cosa che si intende fare è proiettata verso l’esterno

L’unico desiderio è fare una grossa scorpacciata di “likes”.

E questo è esattamente l’obiettivo delle piattaforme social. Esse fanno riferimento a un modello che illustra perfettamente il perché sia così piacevole dedicare tanto tempo ai social e pubblicare contenuti: il Fogg Behavior Model.

In questo modello, si ha la convergenza di tre fattori fondamentali:

  • motivazione
  • capacità
  • innesco

Si tratta di una semplice formula che rende il social network una sorta di droga.

Quando pubblichiamo un post su Instagram, per esempio, la persona che lo fa è chiaramente motivata. Non vede l’ora di sapere quale sarà la reazione dei propri followers

Poi è presente l’innesco, ovvero la notifica che Instagram gli manda ogni volta che qualcuno mette un “like” o commenta il contenuto appena pubblicato. 

E, infine, la capacità che rappresenta il potere di controllare il commento che qualcuno ha scritto. 

Questo modello è alla base di ogni app social. Funziona a causa di un fattore scatenante chiaro ed estremamente diffuso nel mondo moderno: la noia.

La noia è il trigger che ci stimola ad aprire l’app di Instagram per controllare il feed, a guardare banali video su YouTube o a scorrere senza fine da un TikTok all’altro. 

Entriamo nelle app, riceviamo la nostra scarica di dopamina e usciamo felici.

Ma è solo un’apparente felicità, in realtà stiamo solo aggiungendo piccoli ostacoli alla capacità di controllare il nostro livello di stress.

Al contrario, se diventiamo capaci di individuare altre forme d’uscita per la noia o semplicemente l’accogliamo in alcuni momenti (si, perché è molto importante annoiarsi alcune volte), svilupperemo una capacità elevata di accedere alla nostra creatività.

La solitudine, però, non è solo nociva. 

Spesso è importante stare soli con sé stessi. Questa pratica è utile per accedere alla versione “non filtrata” di noi stessi. 

In effetti, gli unici momenti in cui ci sentiamo totalmente disinibiti sono quelli in cui restiamo soli. Non dobbiamo dare conto delle nostre azioni a nessuno. Possiamo essere noi stessi al 100%.

SIAMO VENDUTI

Una delle caratteristiche più diffuse nella nostra epoca è l’ansia delle persone di rispondere alle email o accedere a un social network ogni ora. 

Questi comportamenti sono i motivi alla base dell’incapacità sempre più diffusa di sapersi concentrare in profondità. Magari in un lavoro che dobbiamo ultimare o semplicemente nel dedicare del tempo alle persone care o a un hobby. 

Siamo ossessionati dalla notifiche.

La più grande trappola è riassunta nella convinzione trasmessa quotidianamente dai social. Ci fanno credere che senza il loro utilizzo potremmo perderci qualcosa di importante ed essere tagliati fuori dalla comunità.

Inoltre, il sistema di funzionamento dei social possiede un meccanismo illusorio e altamente nocivo: l’interscambio di attenzione.

Questo significa che, quasi la totalità degli utenti, decidono di prestare attenzione a un altro utente solo se quest’ultimo fa lo stesso con lui. In pratica, ti metto like se lo farai anche tu

Ciò comporta l’abbattimento del valore di un contenuto. Un numero elevato di interazioni non corrisponde sempre a un elevato livello di valore del contenuto.

Questa tipologia di accordo fa sentire le persone importanti. Come disse Andy Warhol “nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per 15 minuti”. Senza alcun impegno profuso, aggiungo io. 

Ottenere attenzione da parte degli altri è un mestiere arduo. Richiede impegno, studio, creatività e spiccato spirito critico. Nel mondo social, sono caratteristiche in via d’estinzione. Al suo interno domina, invece, la ricompensa facile.

Ed ecco che, da persone entusiaste dell’avvento dei social network per consolidare le nostre relazioni e crearne di nuove, ci siamo accorti di esserne diventati il prodotto di punta. Quel pacchetto di informazioni da vendere a terzi. 

Da noi vengono continuamente estrapolate informazioni personali e rivendute agli inserzionisti che, a loro volta, ci vendono esattamente quello che fa al caso nostro.

UN MONDO OSCURO 

E così, pensavo a come fossi stato io per primo vittima di quel modello. A come, effettivamente, la mia percezione di solitudine fosse totalmente alterata. Non ero consapevole del processo che stavo subendo e che gli strumenti che utilizzavo con leggerezza stavano amplificando il tutto.

Il mondo dei social network mi stava insegnando che senza interazioni e senza viralità dei propri contenuti si era degli emarginati e dei falliti.

Eppure intorno a me avevo gente di valore. Persone che non dovevano interagire con un mio post social per farmi sentire bene e parte di una comunità. 

Feci in tempo a comprendere e disinnescare l’incanto malvagio dei social network e farne un utilizzo consapevole e responsabile.

Ecco perché non ritengo i social network uno strumento al 100% nocivo. Li considero uno strumento valido per la propria crescita professionale attraverso la cura del proprio personal brand, uno strumento valido per condividere la propria arte o i propri pensieri o magari uno strumento valido per conoscere nuove persone accomunate dalle stesse passioni. 

Ma ogni cosa con misura e, soprattutto, senza quell’aspettativa che ci rende, lentamente, schiavi di un’app.

Luigi.

2 risposte

  1. Ciao, ho trovato il tuo scritto interessante. Tuttavia la parte iniziale è stata per me disorientante perché inizi con la frase 1976 e poi passi alla pandemia, e dopo ancora quando parli della terrazza e del caffè’. (Forse avrei strutturato il pezzo unendo la parte sul 1976 e poi le considerazioni sulla pandemia. ) In ogni caso molto interessante il Fogg B. M. e l’interscambio di attenzione. Grazie

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